Draghi, l’Italia e l’Europa

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26 Feb 2021

Habemus Papam! Grazie alle astute e copertissime manovre di Matteo Renzi abbiamo finalmente Mario Draghi al governo, con la benedizione non solo del Presidente Mattarella, ma anche di Berlusconi e persino di Salvini.

La situazione del Paese non è normale e ha evidentemente bisogno di una forte coesione che il Parlamento da solo non sa assicurare.

a cura di Leonello Tronti

Habemus Papam! Grazie alle astute e copertissime manovre di Matteo Renzi abbiamo finalmente Mario Draghi al governo, con la benedizione non solo del Presidente Mattarella – che certamente ci pensava da tempo – ma anche di Berlusconi e persino di Salvini. Un capolavoro assoluto, che convalida l’aforisma di Ennio Flaiano: in Italia la linea più breve tra due punti era e resta l’arabesco. Il governo Draghi, il sesto presieduto da un “tecnico” privo di incarichi parlamentari, ha ottenuto la fiducia dal Senato con l’86,5% dei voti e dalla Camera con l’89,8%. Lasciamo dunque perdere i pochi, pochissimi mal di pancia e abbandoniamoci al flusso tiepido e conciliante della miracolosa quasi unanimità che rinnova un’eccezionalità che ormai, dopo la crisi della prima Repubblica, è divenuta tradizione. La situazione del Paese non è normale e ha evidentemente bisogno di una forte coesione che il Parlamento da solo non sa assicurare. Gli effetti del coronavirus sono ancora tragicamente evidenti ed enormi i danni economici e sociali. Il Parlamento ha consacrato a larghissima maggioranza il nuovo inquilino di Palazzo Chigi perché è un economista di valore, di successo e di grande prestigio, riconosciuto in Europa e nel mondo. Un prestigio conquistato sul campo, attraverso il superamento di prove non solo tecniche, ma anche gestionali e politiche. Dopo una fulminea carriera accademica ha infatti ricoperto le cariche di Direttore generale del ministero del Tesoro e poi di Vice Chairman e Managing Director di Goldman Sachs nell’epoca delle privatizzazioni, nel cui quadro ha svolto un ruolo fondamentale. Quindi è stato Governatore della Banca d’Italia e presidente del Forum per la stabilità finanziaria quando esplose la crisi di Lehman Brothers, anche in quel caso assolvendo compiti delicatissimi e di rilevanza straordinaria per le banche e la finanza italiane ed europee. Infine, da Presidente della BCE è diventato famoso in tutto il mondo per aver fermato con il leggendario “whatever it takes” la crisi dei debiti sovrani che rischiava di far saltare l’euro, assicurando ai mercati che la Banca Centrale Europea avrebbe fatto tutto il necessario, qualunque ne fosse l’entità, per evitare la crisi della moneta unica – e riuscendo pienamente nell’intento.

La situazione del Paese non è normale e ha evidentemente bisogno di una forte coesione che il Parlamento da solo non sa assicurare. La fiducia quasi unanime a Draghi, legata ai successi della sua sfolgorante carriera e al prestigio internazionale di cui gode, nel gennaio 2022 potrebbe aprirgli la strada per il Quirinale, come già nel 1999 fu per Carlo Azeglio Ciampi. Il Presidente Mattarella, e con lui quasi tutta la politica italiana, si affidano a Draghi perché pensano che possa quanto meno avviare (certo non portare a termine se dovesse salire il Colle tra meno di un anno) il risanamento profondo di cui l’Italia ha bisogno. Un risanamento non solo dal coronavirus – che già non è poca cosa. Ma anche da quella che su queste colonne abbiamo chiamato “la legge del meno uno”: l’infelice politica economica che da un quarto di secolo condanna l’economia italiana a tassi di crescita annui sistematicamente inferiori di un punto percentuale (in media) rispetto all’insieme dell’Eurozona. Non c’è alcun dubbio che il primo e più feroce nemico che il nuovo governo è chiamato a debellare sia la pandemia; ma non c’è ugualmente dubbio che la competenza e il prestigio di Draghi lo segnalino soprattutto per il compito, forse meno appariscente ma sicuramente non meno insidioso, urgente e indispensabile, di porre termine al declino economico italiano. Perché solo se l’Italia tornerà a crescere a tassi sensibilmente superiori a quelli degli interessi necessari a rifinanziare il debito pubblico – ovvero, a prezzi correnti, non inferiori al 3% – potrà assicurare ai mercati e alla stessa Europa che il suo debito sovrano (in enorme crescita) è comunque sostenibile, e le risorse del Recovery Fund (e le altre prese a prestito sul mercato) sono utilizzate in modo efficace, così che si prospetta finalmente l’uscita del bel Paese dall’amara condizione di “sorvegliato speciale” dell’Eurozona. Certo non è impresa facile. Contro la possibilità di portarla a compimento, e nonostante il significativo avanzo commerciale che l’economia vanta dal 2013 (tra i 40 e i 50 miliardi l’anno a prezzi correnti), gioca infatti una domanda interna strutturalmente e profondamente depressa: due gambe sbilenche, che configurano un modello di sviluppo che non si può che definire “mercantilista povero”, forte a livello internazionale ma debolissimo all’interno. Tocca dunque a lui, adesso, riequilibrare le due gambe dell’economia (domanda interna e domanda estera) e farle correre insieme.

A prezzi concatenati, tra il 2007 e il 2019 i consumi annui delle famiglie si sono infatti ridotti di 17,5 miliardi, e quelli della pubblica amministrazione hanno subito tagli per 12 miliardi. Ma la caduta più vistosa, che più mette a repentaglio il futuro degli italiani, si è consumata negli investimenti: 56,2 miliardi in meno per la componente privata, 16,7 in meno per quella pubblica. In altri termini, a fronte di un guadagno dell’avanzo commerciale di 42,8 miliardi circa, la repressione della domanda interna perseguita pervicacemente con politiche di austerità e blocco dei salari reali nell’illusione di ridurre la dipendenza dalle importazioni e assicurare la crescita tagliando le tasse ai ricchi e il welfare ai poveri, ha comportato il venir meno di 29,5 miliardi di consumi e 72,9 miliardi di investimenti – nell’insieme (-102,4 miliardi), un danno più che doppio! Ogni euro di avanzo commerciale è costato così 2,4 euro di domanda interna ossia, per l’intera economia, la perdita netta immediata di 1,4 euro di prodotto lordo – per non parlare delle perdite future causate dal crollo degli investimenti. Ma il risultato più brillante è senz’altro quello della sconfitta epocale dell’inflazione, che il taglio del potere d’acquisto delle famiglie ha abbattuto dal 2,1 allo 0,6%, ricacciandola in un territorio macroeconomico stagnante, in cui indebitamento e investimenti sono scoraggiati mentre famiglie e imprese sono spinte nella trappola della liquidità. Sono questi i tratti fondamentali del cammino sbagliato di politica economica che ha condotto gli italiani ad accumulare un rapporto tra debito pubblico e Pil oltre il 155%, così da dover dare a Draghi un mandato quasi unanime di salvarli da loro stessi e dall’illusione che tenere per trent’anni un avanzo primario sia di qualche utilità. Tocca dunque a lui, adesso, riequilibrare le due gambe dell’economia (domanda interna e domanda estera) e farle correre insieme, anche al costo di ridurre un poco l’avanzo commerciale e riportare l’inflazione attorno, o anche leggermente al disopra del 2 per cento – qualcosa che da presidente della BCE non gli è mai riuscito. Per farlo, non c’è dubbio che la prima cosa da fare sia di far ripartire gli investimenti pubblici e l’occupazione nel pubblico impiego: come attesta il Fondo monetario internazionale, nell’attuale fase di incertezza i moltiplicatori degli investimenti sono infatti particolarmente elevati e gli investimenti pubblici fungono da catalizzatore per il decollo di quelli privati e la ripresa dell’occupazione.

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