Il da farsi nel 2021

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28 Gen 2021

È una descrizione simile a quella che oggi ci troviamo a constatare nell’osservare la confusione politica e di obiettivi che ci circonda.

“Ciascuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusione delle sue” sosteneva lo scrittore francese Marcel Proust.

A cura di Paolo Pirani

È una descrizione simile a quella che oggi ci troviamo a constatare nell’osservare la confusione politica e di obiettivi che ci circonda. Sembra davvero curioso che la migliore concretezza possibile risieda non negli aggiustamenti politici e sociali ma in una strategia di medio e lungo periodo che ci permetta di rifare l’Italia là dove essa va cambiata e migliorata, dando prospettive reali al lavoro attuale ed a quello futuro che interesserà milioni di giovani. In questo senso fa sorridere, ma non troppo, la “comprensione” con cui si giudica negli ambienti economici europei l’ennesima crisi italiana. Non a caso a Deutsche Bank per “confortare” i propri investitori ha pubblicato un grafico nel quale viene descritto il susseguirsi dei Governi italiani fin dall’unità sotto i Savoia: 131 governi in poco più di 160 anni (e, potremmo dire noi con tanto di…ventennio fascista). Dunque, di che preoccuparsi? Non c’è da allarmarsi neppure per il tanto temuto spread o per i contorsionismi delle agenzie di rating. Il primo, che non sfonda neppure quota 120 al culmine delle tensioni politiche ed è tutto dire, viene tenuto a bada dalla Bce che guarda con maggior sospetto ai Bitcoin piuttosto che ai nostri guai politici; i secondi sono semplicemente inesistenti, proprio grazie alla svolta europea nella pandemia che per ora induce ad escludere che esista un caso Italia.

I nostri problemi sono altri, insomma, e riguarderanno ancora una volta la centralità del lavoro “vincolata” strettamente ai progetti per ricostruire una Italia diversa. Ciascuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusione delle sue. Ma è evidente che potremo parlare più compiutamente di ripresa se attraverso il piano di vaccinazione si raggiungeranno in tempi ragionevolmente brevi condizioni di normalità che mancano, tenendo anche conto della permanente insidiosità del virus. Va detto subito che mentre la confusione politica è a livelli elevati, la nostra economia reale che poggia sulla industria nelle due direzioni tradizionali quanto essenziali – produzione diretta e stimolo ai servizi – si sta difendendo con una vitalità che invece viene sottovalutata. Restiamo uno dei Paesi più industrializzati malgrado le innumerevoli crisi e siamo in grado di essere protagonisti in settori fondamentali come ad esempio la farmaceutica. Ma la domanda che ci si deve porre allora è questa: questa capacità, nella quale è presente l’impegno dei lavoratori ed il ruolo sindacale, come può essere sostenuta nei prossimi mesi ed anni? E non è un quesito da tavola rotonda, bensì un interrogativo cui va data risposta in tempi brevi.

L’economia reale, ma anche la tenuta sociale, hanno bisogno di “regole” diverse dalla presente politica. Il trasformismo non paga, occorre invece agire con progetti riformatori, solidi, capaci di durare nel tempo. Come è noto l’occasione ci viene presentata dall’ingente afflusso di fondi europei che attende dall’Italia un piano circostanziato e soprattutto chiaro negli obiettivi come pure negli strumenti per realizzarlo ed ancor più nei risultati attesi all’interno dei quali non potrà non esserci un consuntivo occupazionale. Sarebbe stato importante a questo punto che la discussione politica si fosse caratterizzata maggiormente su questi nodi che vanno sciolti e dai quali dipende anche il futuro atteggiamento europeo nei nostri confronti. Ed è chiaro che l’Europa attende l’Italia alla prova dei fatti, vale a dire misurando con immaginabile severità la capacità di attuazione dei titoli del nostro progetto che non può rimanere di conseguenza una lista della spesa oppure la replica di vecchie leggi Finanziarie stile anni ’90. E c’è un anello mancante nel confronto politico in atto : il recupero di un dialogo sociale che ora più che mai appare fondamentale per affrontare i seri problemi che dalla primavera ci troveremo di fronte. È fin troppo evidente che vivere di previsioni o di auspici, in questo momento, rischia di farci fare altri passi indietro e non certo uno avanti. Basta ricordarci delle analisi degli anni passati compiute da eminenti economisti od analisti finanziari per predire il futuro: un flop gigantesco. Ecco perché si può aggirare questa impossibilità a leggere con qualche successo un futuro per alcuni versi ancora indecifrabile a causa della pandemia e della deflazione che è fenomeno mondiale, solo allargando il campo del confronto e della lettura della situazione sociale ed economica. Il metodo non può che essere empirico, ma gli esiti dello sforzo per partire una nuova fase economica non possono essere affidati solo ad una autoreferenzialità di governo, specie nel caso in cui la sua coesione interna è strettamente legata alla sopravvivenza di una Legislatura. Nel frattempo, non dimentichiamolo, le diseguaglianze sociali e la consunzione della attività economica potrebbero ulteriormente progredire. I fondi europei possono essere davvero la prima pietra della risalita. La loro entità, il valore stesso che essi hanno come frutto di una ritrovata azione comune europea, potrebbero ricreare condizioni di fiducia che al presente mancano. Ma siamo indietro su questioni rilevanti: la governance, le vere priorità, quali riforme saranno il volano di questa azione di cambiamento profondo della nostra società e non solo dell’economia. E sono ovviamente importanti i tempi ed i luoghi, primo fra tutti il nostro Sud. Questa chiarezza di indirizzi non può essere patrimonio solo della politica. Deve vedere in campo anche le forze sociali. E non per assentire o bocciare, ma per portare un contributo di proposte e di realtà a quanto si dovrà fare. Teniamo conto che faremmo tutti un grave errore se considerassimo le risorse europee come il solo campo di gioco di questa difficile partita per uscire dalle emergenze. Non dimentichiamo che sopra di noi pende un debito sempre più gravoso del quale prima poi dovremmo rendere conto.

Non possiamo illuderci più di tanto sull’ombrello della Bce o sulla lunghezza dei tempi con i quali restituire i prestiti. Certo, ci saranno di aiuto ma non cancelleranno certo quell’onere che stiamo affidando al futuro. Anche per tali motivi è necessario che l’Italia faccia presto, cambi passo, dimostri di saper reggere alla sfida ritrovando ragioni solide di crescita. E questo lo si può fare se la direzione di marcia sarà chiara quanto coloro che potranno contribuire a renderla tale. Naturalmente se tutto cambia, il lavoro a maggior ragione continuerà a cambiare. Ed il sindacato dovrà essere ancora una volta attento a queste mutazioni che chiameranno in causa il suo ruolo. Pensiamo a futuro dello smart working, oppure alla diffusione di grandi gruppi sempre più “invisibili” come nel caso di Amazon od allo stesso modo di lavorare, sempre più orizzontale, sempre più legato al singolo lavoratore ed alla sua dignità. Eppure, anche in questo caso, la capacità sindacale di dare risposte potrebbe essere altresì un contributo al progresso del Paese ed alla sua coesione sociale.

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